L’accesso dei raccoglitori di tartufi ai fondi altri è regolato dalla legge italiana e, in conformità ad essa, da quelle regionali (accesso tartufaie).
Per quanto concerne l’accesso dei raccoglitori sui fondi altrui, la legge italiana (art.3 della legge 752/1985) intende contemperare il diritto di proprietà dei secondi con quello alla ricerca dei primi.
La ricerca può essere liberamente effettuata nelle tartufaie naturali che si trovano nei boschi e nei fondi non coltivati.
E’ invece vietata:
- nei fondi coltivati;
- nelle tartufaie naturali che sono trasformate in tartufaie contrallate, cosa che avviene quanto il proprietario del fondo vi aggiunge un congruo numero di piante tartufigene;
- nelle tartufaie coltivate, e cioè impiantate ex novo dal proprietario del fondo.
Il perimetro delle tartufaie controllate e coltivate deve essere adeguatamente segnalato mediante appositi cartelli.
Su tali disposizioni si è più volte pronunciata la Corte Costituzionale, ritenendo che:
- l’accesso dei raccoglitori ai fondi altrui nei predetti casi rappresenta una legittima limitazione al diritto di proprietà sui fondi ove insistono le tartufaie naturali (sentenza 13 luglio 1990, n.328);
- le sponde e gli argini dei corsi d’acqua classificati pubblici dalla vigente normativa», lungo i quali viene espressamente consentita la libera raccolta, possono essere senz’altro ricondotti al concetto di terreni non coltivati, per i quali il principio di libera raccolta deriva dalla norma statale (sentenza (sentenza del 1 giugno 2006, n.212);
- per contro, la libera ricerca non è ammessa nei fondi delle aziende faunistico-venatorie debitamente chiusi (sentenza del 13 luglio 1990, n.328);
- le Regioni non possono consentire la libera raccolta dei tartufi, oltre che nei boschi e terreni non coltivati, anche nei parchi, nelle oasi, zone di ripopolamento e addestramento cani, aziende faunistico-venatorie e agro-turistico-venatorie (sempre sentenza 212/2006);
- le Regioni possono definire i requisiti per il riconoscimento delle tartufaie controllate (sentenza 212/2006) nonché limitare la loro estensione territoriale (sentenza 29 maggio 2009, n.167).
Sentenza della Corte Costituzionale del 1 giugno 2006, n.212.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA
Nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della legge della Regione Umbria 26 maggio 2004, n. 8 (Ulteriori modificazioni ed integrazioni della legge regionale 28 febbraio 1994, n. 6 – Disciplina della raccolta, coltivazione, conservazione e commercio dei tartufi), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 4 agosto 2004, depositato in cancelleria il 7 agosto 2004 ed iscritto al n. 81 del registro ricorsi 2004.
Visto l’atto di costituzione della Regione Umbria;
udito nell’udienza pubblica del 4 aprile 2006 il Giudice relatore Annibale Marini;
uditi l’avvocato dello Stato Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Fabrizio Figorilli per la Regione Umbria.
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso ritualmente notificato e depositato, ha impugnato gli artt. 2 e 4 della legge della Regione Umbria 26 maggio 2004, n. 8 (Ulteriori modificazioni ed integrazioni della legge regionale 28 febbraio 1994, n. 6 – Disciplina della raccolta, coltivazione, conservazione e commercio dei tartufi), per contrasto con l’art. 117, commi secondo, lettere l) e s), e terzo, della Costituzione.
Premette la parte ricorrente che la legge impugnata non indica quale sia la materia sulla quale la Regione ha inteso intervenire ed assume che tale omissione di per sé costituisca un vizio di legittimità costituzionale dell’intera legge.
Con specifico riferimento alle singole norme impugnate, rileva quindi l’Avvocatura che l’art. 2 della legge, che individua gli ambiti territoriali in cui la raccolta dei tartufi è libera, incide – come si desume anche dalla giurisprudenza di questa Corte – sulla materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di esclusiva competenza statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
Ma se anche – prosegue l’Avvocatura – la raccolta dei tartufi potesse essere ricondotta ad una delle materie di competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, comunque la legge regionale avrebbe dovuto rispettare i principi fondamentali fissati dalla legge statale. E se è vero che la libertà di raccolta costituisce un principio fondamentale fissato dalla legge 16 dicembre 1985, n. 752 (Normativa quadro in materia di raccolta, coltivazione e commercio dei tartufi freschi o conservati destinati al consumo), detto principio non può che ritenersi comprensivo anche dei limiti che a tale libertà vengono posti dalla stessa legge statale.
Sarebbero proprio tali limiti ad essere invece modificati in maniera significativa dalla norma impugnata, che consente la libera raccolta non solo – come già dispone la legge statale – nei boschi e nei campi non coltivati, ma anche nei parchi (che trovano la loro disciplina nella legge statale 6 dicembre 1991, n. 394, ed in particolare nell’art. 11), nelle aree naturali protette (disciplinate dagli artt. 22 e seguenti della stessa legge n. 394 del 1991), nelle aziende faunistico-venatorie e nelle aree demaniali, senza alcuna distinzione tra demanio statale e demanio regionale o sub-regionale, con conseguente violazione della richiamata norma costituzionale.
Ancora più evidente sarebbe poi l’illegittimità costituzionale della norma impugnata se si ritenesse che essa intende disciplinare la libertà di raccolta anche nei confronti dei proprietari dei fondi, in quanto, in tal caso, ne risulterebbe investito il regime della proprietà privata e, di conseguenza, la materia dell’ordinamento civile, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Da analoghi vizi sarebbe affetto anche l’art. 4 della legge regionale, che da un lato incide sulla individuazione delle tartufaie controllate, attraverso la definizione del concetto di presenza diffusa, e dall’altro fissa un limite massimo alla loro estensione, in tal modo derogando ai principi fissati dall’art. 3 della legge statale n. 752 del 1985.
Inoltre, poiché ai sensi del medesimo art. 3 la proprietà dei tartufi prodotti nelle tartufaie controllate non spetta ai proprietari dei terreni ma a coloro che le conducono, anche questa norma – secondo l’Avvocatura – verrebbe in definitiva ad interferire nella materia dell’ordinamento civile, riservata allo Stato.
2.- Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, concludendo per il rigetto del ricorso.
Osserva, preliminarmente, la Regione, quanto alla lamentata difficoltà di individuazione della materia cui le norme censurate si riferiscono, che la legge n. 8 del 2004 contiene disposizioni integrative della disciplina dettata dalla precedente legge 28 febbraio 1994, n. 6 (Disciplina della raccolta, coltivazione, conservazione e commercio dei tartufi), «il cui titolo contiene tutti i riferimenti utili ad una precisa ed inequivocabile identificazione della materia in cui si è voluto intervenire».
Per quanto riguarda poi le censure specificamente riferite agli artt. 2 e 4 della legge, deduce, preliminarmente, la resistente la contraddittorietà ed incoerenza del ricorso, in quanto le disposizioni impugnate sono meramente attuative del principio recato dall’art. 1 della legge, non impugnato, secondo cui «la Regione tutela e valorizza il patrimonio tartuficolo naturale e ne favorisce la ricerca libera ai sensi dell’articolo 2», e appaiono altresì coerenti con l’art. 6, primo comma, della legge-quadro statale, secondo cui «le regioni provvedono a disciplinare la tutela e la valorizzazione del patrimonio tartufigeno pubblico».
Nel merito, la Regione, in primo luogo, assume che la materia in considerazione deve ricondursi alla competenza esclusiva residuale delle Regioni, sia perché non espressamente ricompresa nell’elencazione di cui ai commi secondo e terzo dell’art. 117 della Costituzione, sia perché strettamente connessa con materie di esclusiva competenza regionale, quali la tutela del patrimonio agricolo e l’utilizzazione del territorio agro-silvo-pastorale, ovvero concorrente, quale l’alimentazione.
Seppure si volesse accedere alla tesi dell’Avvocatura, secondo la quale la materia sarebbe quella della tutela ambientale, dovrebbe comunque tenersi conto della peculiarità di tale materia, più volte sottolineata dalla stessa Corte costituzionale, in quanto l’ambiente è un valore costituzionalmente protetto che, in quanto tale, delinea una materia trasversale, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, spettando allo Stato il solo compito di fissare uno standard di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale.
Il legislatore umbro – secondo la Regione – nell’estendere gli ambiti di raccolta libera, tenuto conto della specificità del territorio regionale, ha tenuto fermo il riferimento alle aree non coltivate, da considerarsi, in ipotesi, come standard minimo di tutela della risorsa ambientale, e ciò varrebbe ad escludere la violazione dei principi fondamentali posti dalla legge-quadro del 1985, peraltro anteriore alla riforma del Titolo V della Costituzione.
La Regione Umbria, del resto, anche prima della modifica costituzionale aveva esteso, con l’art. 2 della legge n. 6 del 1994, l’ambito dei luoghi in cui praticare la ricerca libera, senza che l’autorità statale sollevasse al riguardo alcun dubbio di costituzionalità.
Del tutto infondata – ad avviso ancora della Regione – è invece la tesi secondo cui costituirebbe principio fondamentale la limitazione della raccolta libera alle sole aree non coltivate ed ai boschi. Se così fosse, la potestà normativa concorrente delle Regioni resterebbe irrilevante, null’altro essendo loro consentito, sul punto, se non riprodurre la norma statale.
Per quanto specificamente concerne la lettera b) dell’art. 2 impugnato, la Regione osserva che la norma va interpretata nel senso che l’estensione della ricerca libera deve essere riferita – per ciò che riguarda parchi, oasi e aree demaniali – ai soli ambiti territoriali di competenza regionale, mentre l’inclusione delle zone di ripopolamento e cattura e addestramento cani è legittimata dal fatto che la disciplina di tali aree ricade nella competenza concorrente, se non addirittura residuale, delle Regioni.
Non vi sarebbe lesione alcuna dei principi dettati dalla legge statale n. 394 del 1991 in materia di aree protette, in quanto l’art. 11, comma 3, della legge prevede unicamente divieti nei confronti di attività che possono compromettere paesaggi ed ambienti tutelati «con particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat», mentre è evidente che il tartufo non rientra in tali categorie, e l’art. 22 della stessa legge, pure richiamato dall’Avvocatura, si riferisce esclusivamente alla materia dei prelievi venatori.
La legge regionale 3 marzo 1995, n. 9, attuativa della richiamata legge statale, all’art. 15, lettera c), stabilisce, del resto, che «le attività agro-silvo-pastorali e la raccolta delle specie vegetali, quali tartufi, funghi ed asparagi, sono consentite in tutte le zone dell’Area naturale protetta».
Quanto alla lettera c) del richiamato art. 2, osserva la resistente che, con sentenza n. 328 del 1990, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale di una norma (l’art. 6 della legge Regione Umbria 3 novembre 1987, n. 47) del tutto sovrapponibile a quella ora impugnata, in quanto interpretata nel senso di escludere ogni possibile sconfinamento in materie, quali l’ordinamento civile, esclusivamente riservate allo Stato.
Destituite di qualsiasi fondamento sarebbero infine, secondo la Regione, anche le censure riferite all’art. 4 della legge n. 8 del 2004, considerato che il legislatore statale non ha indicato i presupposti quantitativi, uniformi su tutto il territorio nazionale, per l’individuazione delle tartufaie, cosicché la relativa competenza non può che spettare all’autorità regionale.
3.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica la Regione Umbria ha depositato una memoria illustrativa, nella quale ribadisce gli argomenti svolti nell’atto di costituzione a sostegno della richiesta di rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 2 e 4 della legge della Regione Umbria 26 maggio 2004, n. 8 (Ulteriori modificazioni ed integrazioni della legge regionale 28 febbraio 1994, n. 6 – Disciplina della raccolta, coltivazione, conservazione e commercio dei tartufi), per contrasto con l’art. 117, commi secondo, lettere l) e s), e terzo, della Costituzione.
Secondo l’Avvocatura la legge regionale sarebbe, innanzitutto, illegittima nella sua interezza per la mancata individuazione della materia in cui la Regione ha inteso esercitare la potestà legislativa.
L’art. 2 della legge, ampliando – rispetto a quanto previsto dalla legge-quadro statale 16 dicembre 1985, n. 752 (Normativa quadro in materia di raccolta, coltivazione e commercio dei tartufi freschi o conservati destinati al consumo) – gli ambiti territoriali in cui la raccolta è libera, inciderebbe nella materia della tutela dell’ambiente, di esclusiva competenza statale, e comunque – se anche si volesse ricondurre la disciplina regionale ad una delle materie di competenza concorrente – violerebbe i principi fondamentali dettati dalla richiamata legge-quadro.
L’art. 4 della medesima legge, indicando limiti minimi di presenza del tartufo per ettaro, ai fini della sussistenza del requisito della presenza diffusa, e limiti massimi di estensione delle tartufaie controllate, derogherebbe, a sua volta, ai principi fondamentali fissati dall’art. 3 della legge statale ed inciderebbe nella materia dell’ordinamento civile, di esclusiva competenza statale, venendo indirettamente ad alterare il regime della proprietà dei tartufi, che – per quanto riguarda quelli prodotti nelle tartufaie coltivate o controllate – non segue la proprietà del fondo ma spetta a coloro che le conducono.
2.- Va, in primo luogo, disatteso l’assunto, del tutto privo di motivazione, dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la mancata indicazione nella legge regionale della materia nella quale è stata esercitata la potestà legislativa comporterebbe l’incostituzionalità dell’intera legge.
L’indicazione richiesta dalla difesa erariale non solo risulta, infatti, priva di qualsiasi base normativa, ma, provenendo dallo stesso legislatore regionale, si risolverebbe in una sorta di autoqualificazione carente in quanto tale di giuridica rilevanza.
3.- La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge regionale n. 8 del 2004 è fondata, nei limiti di seguito indicati.
Va, innanzitutto, precisato che la materia nella quale si inserisce la normativa regionale impugnata in tema di raccolta dei tartufi è quella della valorizzazione dei beni ambientali, di competenza concorrente.
Il patrimonio tartuficolo costituisce, infatti, una risorsa ambientale della Regione, suscettibile di razionale sfruttamento, la cui valorizzazione compete perciò alla Regione medesima, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nel rispetto dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale.
Tali principi fondamentali sono allo stato enucleabili dalla legge 16 dicembre 1985, n. 752, e in particolare – per ciò che in questa sede rileva – dall’art. 3, primo comma, secondo il quale «la raccolta dei tartufi è libera nei boschi e nei terreni non coltivati».
La tesi della Regione – secondo cui il principio fondamentale desumibile da tale norma sarebbe solamente quello della libertà di raccolta – non può essere condivisa, essendo evidente che, secondo il legislatore statale, coessenziale all’affermazione di tale libertà è la sua limitazione al solo ambito dei boschi e dei terreni non coltivati, nell’ottica di un ragionevole bilanciamento tra le esigenze «di quella parte della popolazione che nella ricerca e raccolta dei tartufi trova un motivo di distensione ed anche di integrazione del proprio reddito» (sentenza n. 328 del 1990) e la necessità di difendere il patrimonio ambientale dal rischio di danni irreparabili e di tutelare altresì i diritti dei proprietari dei fondi.
La norma impugnata non viola siffatto principio fondamentale per quanto riguarda la lettera a), in quanto «le sponde e gli argini dei corsi d’acqua classificati pubblici dalla vigente normativa», lungo i quali viene espressamente consentita la libera raccolta, possono essere senz’altro ricondotti al concetto di terreni non coltivati, per i quali il principio di libera raccolta deriva dalla norma statale.
4.- A diverse conclusioni deve invece pervenirsi quanto alle lettere b) e c) del medesimo art. 2.
L’art. 2, lettera b), consente infatti la libera raccolta «nei parchi e nelle oasi, con esclusione delle zone di “riserva integrale” come definite dalla legge regionale 3 marzo 1995, n. 9, nonché nelle aree demaniali, nelle zone di ripopolamento e cattura, zone addestramento cani», mentre l’art. 2, lettera c), la prevede anche «nelle Aziende faunistico-venatorie e nelle Aziende agro-turistico-venatorie nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di caccia chiusa, con modalità di accesso definite dalla Giunta regionale sentite le associazioni ed il legale rappresentante dell’ente gestore o dell’azienda proprietaria».
Si tratta, in entrambi i casi, di un evidente ampliamento dei limiti fissati dalla norma di principio statale, in quanto parchi, oasi, zone di ripopolamento e addestramento cani, aziende faunistico-venatorie e agro-turistico-venatorie costituiscono ambienti territoriali del tutto diversi dai boschi e terreni non coltivati cui fa riferimento l’art. 3, primo comma, della legge n. 752 del 1985.
Ne deriva, perciò, la violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione e la conseguente illegittimità costituzionale della norma regionale, in parte qua.
5.- È invece infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge regionale n. 8 del 2004, che definisce il requisito della “presenza diffusa”, ai fini del riconoscimento delle tartufaie controllate, delle quali stabilisce altresì limiti massimi di superficie.
La legge-quadro n. 752 del 1985, all’art. 3, quinto comma, si limita a definire le tartufaie controllate come «tartufaie naturali migliorate e incrementate con la messa a dimora di un congruo numero di piante tartufigene».
Stante l’evidente genericità di tale definizione, di per sé insuscettibile di pratica applicazione, non può che spettare alle Regioni, in base alle regole di riparto della competenza nelle materie di legislazione concorrente, la normativa di dettaglio diretta alla concreta individuazione dei requisiti per il riconoscimento di tartufaia controllata.
Allo stesso modo, in mancanza di qualsiasi enunciazione di principio, nella legge statale, riguardo alla estensione delle suddette tartufaie controllate, non può certamente ritenersi precluso alle medesime Regioni di fissare limiti massimi, in relazione alle specifiche caratteristiche del territorio regionale, onde evitare una eccessiva compressione del principio fondamentale della libera raccolta nei boschi e nei terreni non coltivati.
È appena il caso di osservare, infine, che la norma impugnata, specificando esclusivamente requisiti e limiti delle tartufaie controllate, non incide di per sé sulla spettanza della proprietà dei tartufi, che resta, invece, disciplinata dalle norme di principio dettate dalla legislazione statale ed in particolare dall’art. 3 della legge 16 dicembre 1985, n. 752. Ciò che vale ad escludere la violazione, nella specie, del limite dell’ordinamento civile posto al legislatore regionale dall’art. 117, secondo comma, della Costituzione.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, lettere b) e c), della legge della Regione Umbria 26 maggio 2004, n. 8 (Ulteriori modificazioni ed integrazioni della legge regionale 28 febbraio 1994, n. 6 – Disciplina della raccolta, coltivazione, conservazione e commercio dei tartufi);
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, lettera a), e 4 della medesima legge, sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettere l) e s), e terzo, della Costituzione, con il ricorso in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 maggio 2006.